Ho avuto il privilegio di vedere il film privatamente in anteprima nella sua versione estesa, a mio avviso più affine per chi voglia accostarsi all’esperienza presentata dal regista, protagonista ed esploratore. Sì, esploratore - parola grossa - ma in questo caso credo si possa ancora parlare di esplorazione, soprattutto per il modo con cui il viaggio è stato preparato, condotto e rielaborato e per l’ostinazione nel voler setacciare nel corso degli anni un’area talmente vasta, da rendere l’impresa impossibile sin dalla sua partenza.
E’ un tuffo in un mondo senza tempo, a noi - o almeno a me - appartenente all’immaginario e, di conseguenza, ignoto. E se torno col pensiero alla mia esperienza di canoa in Mongolia, qui ogni aspetto appare amplificato ma non per due, per cento.
Un viaggio lento, lungo un fiume che si muove stanco, su un terreno dove la pendenza non viene percepita, dove la pagaiata è un ripetersi ininterrotto e faticoso, aggravato dall’impiego di un kayak gonfiabile e dal peso di un equipaggiamento necessario, non potendo contare su nulla per giorni e giorni, oltre che su un vento inesorabilmente contrario.
Un viaggio che attraversa spazi vasti e vuoti, che si perdono in un orizzonte sempre uguale, in un'atmosfera densa di zanzare, in cui domina, appena oltre il persistente ronzio, la voce del vento, talvolta sovrastante quando carica furioso, perché privo di ostacoli nella sua lunga corsa.
Un viaggio che in questi spazi immensi e isolati appare di una tale monotonia ed essenzialità, da obbligare il viaggiatore – come egli stesso dice - a interrogarsi dentro, sul perché di ogni cosa, di se stessi così come del perché dello stesso viaggiare, in un mondo immobile e immutabile, che ti porta a scoperchiare la solitudine che ci appartiene nel profondo, al di là che ci si muova o meno con un compagno.
Un viaggio dove gli incontri con altri uomini sono rari e rudi, realizzandosi su basi culturali e tradizioni che nulla hanno a che fare con le nostre e che risentono del perenne isolamento, per la totale assenza di strade (unica modalità di trasporto ora è l'elicottero). Isolamento accentuato dalla distanza incolmabile dalla "civiltà" e da condizioni climatiche estreme, che caratterizzano quelle terre per buona parte dell'anno, man mano che ci si sposta, pagaiando, verso l'artico.
Una taiga senza confini, se non quelli che ci porremmo noi, uomini dell’Occidente, dove si vive di nulla e nel nulla, dove prevale il movente della sopravvivenza: procurarsi il cibo, proteggersi dagli insetti nei mesi miti o, altrimenti, dal freddo estremo, e vigilare su se stessi per non perdersi nell’abuso di alcol e nel degrado. Dove la parola “superfluo” non trova significato, perché la Siberia è “SoloSiberia”.
La regia è molto spartano ma ci sta, per congruenza con le immagini del viaggio.
Un grazie a Daniele e all'ospitalità di Valentina per la visione in anteprima.