Ero d’accordo con Alberto che sarei andato a rovistare nel suo archivio fotografico ma purtroppo, se accadrà, non ci sarà più lui a raccontarmi di quelle foto storiche, di quelle prime di molti torrenti, del viaggio in kayak lungo le coste dell’Islanda, della sua vittoria a una delle prime edizioni della Maratona internazionale del Taro nel 1962 o 63 davanti all’imbattibile Willi Gerstgrasser del Canoa Club Merano e di tanto altro ancora.
Alberto aveva iniziato a pagaiare nel 1958, circa a 17 anni, nella scia del pioniere e grande promotore Guglielmo Granacci del Canoa Club Milano. Ben presto si stufò di quell’andare in canoa, spesso lungo tratti di fiume dove è ormai venuta meno ogni spinta, dove se avverti il rumore dell’acqua, ti devi preoccupare di trovare un passaggio sulla raschiera, che non ti costringa a spingere la canoa sui sassi, anziché emozionarti per l’onda gelata che ti si rovescerà addosso. Né si entusiasmava per le tavolate celebrative in trattoria di fine discesa.
Sentiva il bisogno di fare qualcosa di più, di provare i suoi limiti, di mettere alla prova la sua tenacia e chi poteva assecondarlo se non il più audace e capace tra i canoisti italiani di allora? Carlo Grigioni, anche lui socio del CCM.
Granacci diffidò Alberto dal seguire Grigioni, avvisandolo che era un matto scapestrato, che andava a cercarsele. Parole che convinsero Alberto definitivamente che Grigioni fosse il miglior compagno di avventure.
Così fece nel marzo 1960 e si trovò a pagaiare fino agli ’70 in compagnia del gruppetto di Carlo Grigioni, che man mano si allargò ad altri. Nel tempo ne fecero parte Mario Grigioni, fratello di Carlo, Andrea Alessandrini, Sergio Garattoni, Adolfo Sacchi, Franco Zampirolo, Enzo Colla, Angelo Ramella, Luigi Paracchini, Denny Jucker, Casimiro Righini, Michele Romano, Sergio Rinaldi e, non ultima, Tatiana, la moglie di Alberto, una tra le poche donne - se non l’unica - che allora osasse scendere il 4° grado e avventurarsi lungo fiumi sconosciuti.
Fino al 1960-61 le mute non esistevano ma c’era chi riusciva a procurarsi qualche ritaglio di neoprene e se le auto-costruiva. Alberto, con la sua leggendaria manualità, aveva addirittura intarsiato il suo monogramma “BB” in neoprene giallo, con le B contrapposte.
Agli appuntamenti per andare sui fiumi Alberto arrivava sempre più che puntuale: rigorosamente in anticipo, quindi si appostava nelle vicinanze e - con nonchalance - al battere dell’ora stabilita si presentava né un attimo prima né un attimo dopo, consono al suo stile garbato e preciso.
Inizialmente le discese avvennero ancora con canoe pieghevoli in legno e tela ma appena uscì la tedesca Klepper Slalom in vetroresina da torrente, lunga 4,02 m, Alberto se ne interessò e circa nel 1959 la comprò. Quella fu la prima canoa in vetroresina da torrente arrivata in Italia!
Come gli altri amici del gruppetto toccarono con mano la superiorità del vetroresina, se ne procurarono una e ciò diede impulso a un ulteriore slancio esplorativo su tratti sempre più a monte e impegnativi dei torrenti alpini e appenninici.
Fu così che negli anni ’60 Carlo Grigioni, Albero Biagi e gli altri amici furono i primi italiani ad affrontare passaggi di quinto grado e scesero in prima molti fiumi e torrenti non solo in Italia, anche in Grecia e Jugoslavia.
Nel 1963 iniziò la lunga avventura balcanica, prima in Jugoslavia, con la pionieristica discesa della Tara di Alberto Biagi, Danny Jucker e Sergio Garattoni. Nel 1964 fu la volta della Piva. Tra le numerose discese sono senz’altro da ricordare quelle in Grecia nel 1974 dell’Aspropotamo, nel 1975 dell’Arachtos e, soprattutto, dell’Aoos, disceso in prima assoluta da: Carlo e Mario Grigioni, Alberto Biagi, Michele Romano e Casimiro Righini.
Il mio primo ricordo di Alberto risale al 1974, quando Alberto Biagi e Roberto Bruno, detto il Brunotti, soci del Gruppo Milanese Canoa, invitarono me e altri ragazzini del GMC a partecipare ai Campionati italiani allievi e ragazzi sul Lys a Gressoney. Ci trovammo sulla sponda del torrente io, mia sorella Isabella, poi venti volte campionessa italiana di canoa, Maurizio e Lele Bernasconi, che a inizio anni ’80 organizzarono le prime spedizioni italiane in canoa su fiumi tibetani, Francesco Conti, figlio di Luigi, Carlo Testa e altri ragazzini.
Per me e qualcun altro era la prima esperienza su un torrente, l’acqua gelida scorreva velocissima e noi, tutti giovanissimi, eravamo assai intimoriti e preoccupati. Alberto ci spiegò le manovre essenziali, l’ingresso in corrente e in morta, ci diede coraggio e ci fece indossare giubbotti e caschi da hockey, oltre alle nostre maglie di lana e giacchette K-Way. Poi… giù, iniziammo a pagaiare! Nessuno si capovolse, neppure al saltino a metà percorso! Fu merito di Alberto e di Roberto se non ne uscimmo spaventati e ci appassionammo alla canoa fluviale.
Credo che Alberto frequentasse pochissime persone. Era un uomo misterioso da quanto fosse riservato e schivo. Tuttavia periodicamente ospitava sontuose cene a casa sua con i suoi amici per parlare di discese fluviali e programmare nuove avventure.
Lo immaginavo immerso in un suo mondo parallelo, credo ignoto anche a quei pochi che frequentava. Mi affascinava andare a trovarlo nella sua grande casa, perché, per quanto lo spazio non vi mancasse, traboccava di oggetti strani e bizzarri, spesso sconosciuti e misteriosi come era lui, raccolti in giro e nei suoi viaggi. La sua mente ironica, anzi talvolta sanamente beffarda, lo rendeva un ideale raccoglitore e collezionista di tutto ciò che appariva kitsch o grottesco o che si fosse smarrito nel tempo: attrezzi da cucina dimenticati e di modernariato (aveva addirittura una collezione di frullatori di ogni sorta), maschere africane, antichi manichini per vetrine, oggetti Belle Époque, insegne di latta pubblicitarie e per la sicurezza sul lavoro di fine ottocento e inizio novecento, utensili contadini e tanto altro.
Ebbi il piacere di partecipare a uno dei suoi viaggi nel 1977 nel Nord Africa con Tatiana, Brunotti, Adriana Marzi e pochi altri amici, in cui mi insegnò un modo di viaggiare senza meta prestabilita, facendo campeggio libero e disponendosi alle sorprese che il viaggiare in quel modo sa offrire, sorprese non sempre piacevoli ma sempre a lieto fine per le capacità dei partecipanti e un pizzico di fortuna, che non guasta mai. Nei suoi viaggi come in canoa scattava fotografie, aveva una collezione di macchine fotografiche, che comprendeva Hasselblad e Leica, da far invidia a fotografi professionisti. Poteva permettersele, come avrebbe potuto permettersi viaggi in alberghi a quattro stelle, ma preferiva piantare la sua tenda canadese dove più gli piaceva.
Poiché l’amico “di riferimento”, Roberto Bruno, dalla canoa era passato alla bici da corsa su è giù per le strade di montagna, tutti ci ritrovammo a pedalare: chi in sella a bici cigolanti, come me, Andrea Alessandrini, Carlo Testa e Abner Colombo, chi in sella a bici dalle armoniche perfette, come Roberto Bruno, Nicolò Lurani e lo stesso Alberto. Nei primi tempi Alberto preferì abbigliarsi da città per non dare nell’occhio, seguendoci discretamente alla dovuta distanza. Quando iniziò a essere più allenato, farsi superare in salita da un signore che aveva passato la mezza età, vestito come per andare a comprare il pane due isolati più in là, non doveva essere una bella cosa per quei pochi che, sgomenti, si vedevano superare!
Scherzosamente si diceva che Alberto - potendoselo permettere - quando trovava qualcosa che lo aggradasse, evento già di per sé non frequente, comprasse di quell’articolo non uno, non due, bensì tre esemplari: il primo da utilizzare, il secondo all’occorrenza come scorta e il terzo come riserva della riserva, per evitare l’ansia di trovarsi senza il ricambio, nel caso in cui il primo diventasse inutilizzabile e nel frattempo fosse uscito di produzione! In realtà era una persona parsimoniosa, d’altronde preferì non lavorare durante la sua vita, e questa fu comunque una scelta coraggiosa, a meno che non si sia dei paperoni. Sapeva che l’oculatezza era la prima tra le virtù da coltivare, se non ci si vuole trovare un giorno sotto un ponte e non per pagaiare! Talvolta Tatiana – a differenza di lui, grande lavoratrice - lo prendeva in giro per questo suo modo di essere e, allora, si animavano come in una scenetta tra Mondaini e Vianello, canzonandosi di buon cuore vicendevolmente. Tuttavia il suo, il loro stile di vita, adottato anche dal figlio Ludovico, non mi dispiacerebbe affatto se fosse più diffuso nel mondo.
Senza accorgermene ho scritto un fiume di parole, al contrario di Alberto che evitava la parola, come sui torrenti dove la voce è schiacciata e ci si limita a un gesto o a uno sguardo.
Nella foto allegata:
Alberto Biagi “disinvolto” sulla riva innevata di un Trebbia ghiacciato - 1967
Foto dall’“Archivio Storico di William Granacci”, curato da Veniero Granacci