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Sesso e pagaie a Sabaudia (racconto a puntate)
maurizio bernasconi:
...per sbeffeggiarli. (6°) Quanti anni avrai esattamente nel duemilaotto, biondina? Che poi non sarai mica più una ragazza, sarai da un pezzo una donna. Ti chiederò: “Dove li hai presi quegli occhi e quell’espressione seria, vagamente miope e affascinante”. Mi convincerò del tutto che hanno davvero sbagliato in maternità, che potresti essere la figlia di due angeli, a giudicare dalle dita lunghe, dalle clavicole, dalle coste flottanti rilevate. Zerlina non era certo fatta così.
Preferirò parlare di te, di Ninfa, dei tuoi risultati nelle gare internazionali, ma tornerà ineluttabilmente fuori la faccenda della tua mamma. Dirò: “Peccato che non abbiamo avuto prima occasione di parlare, di conoscerci”.
Di tua iniziativa, bella che sarai, mi chiederai nuovamente di raccontare tutto quello che ricordo di quell’inverno a Sabaudia. Chissà se avrò nel frattempo imparato a mentire, a mentire duro, col sorriso dei veri figli di pi, quelli che mentono per abitudine, per vizio, per necessità, quelli che sanno solo e sempre mentire, infantili e infernali? Ma come farò, mi incasinerò, dirò: “L’hai conosciuta meglio di me… c’è poco da inventare. Era solo una ragazzina, una yunior, poi sparì e si seppe che era rimasta incinta eccetera eccetera. A proposito, in che mese sei nata? D’accordo ci ho messo un po’ a capire dove andavi a parare, ma alla fine... sai noi uomini per queste cose siamo imbranati. Vorresti informazioni sull’identità del padre, dillo chiaro. Evidentemente Zerlina, pace all’anima sua, a te non ha mai detto la verità e non ha lasciato nulla di scritto. Non fissarmi così, perdìo, guarda, ho i capelli diversi, la mandibola è diversa, insomma… io non c’entro. Del resto anche i giganti, togliteli dalla testa, erano bestioni, neri e pelosi, mi spiace, nessuno di loro può essere quello che cerchi”.
Ascolterai inutilmente le vecchie storie canoistiche, coi classici dettagli che non interessano a nessuno, invece di chiedere nel modo più diretto con chi fosse andata tua madre quell’inverno. E’ cosa di carattere.
Ma quali sarebbero poi le faccende da non dimenticare di questa piccola vita a Sabaudia? Forse il vino giovane sfuso, le mura ciclopiche di Gaeta, certe pareti a picco sul mare o la stazione di Latina ficcata chissà perché a casa di dio. Oppure la gara a chi ce l’ha più grosso nelle docce, che poi tutta la vita non vedrò altro: gente che fa a gara per averlo più grosso.
Una sera esco con cinque o sei giganti: libera uscita. Si va a casa di un certo pittore in una lussuosa villa sulla duna; si tratta nientemeno del famoso Niccolò Ghirlandaio. La marcia di parecchi chilometri si fa volentieri, con la promessa di una cena diversa dalla solita pastasciutta.
Per me è la prima volta, i giganti sono habitués. E’ curioso che un intellettuale sia interessato a intrattenersi con noi semianalfabeti. Non ho ancora conosciuto degli artisti, spero in quest’opportunità per qualche ragionamento sull’estetica e altra roba simile. Sfoggerei miserabili letture a riguardo ed esprimerei banalissime opinioni: un evento da non perdere.
Serata equivoca, tutti maschi, il padrone di casa è un tracagnotto di mezza età e riceve in vestaglia, spacciando per liberalità la più completa trascuratezza; sì che viene da un’illustre famiglia!
Nell’ingresso si transita davanti a un’enorme tela in lavorazione… è magnifica; raffigura uomini muscolosi a grandezza naturale in un bagno turco, con suggestivi effetti “braghe di vapore” ottenuti a gesso.
Le vivande sono un po’ stravaganti per i miei rozzi gusti subalpini e non ci arrivo al volo, tanto per cambiare… ma alla fine… è una cena a base di spumante e c.
Il mio timido tentativo di portare il discorso sulle cose dell’arte ottiene sarcasmo.
Alcuni si mettono a loro agio e passano con naturalezza a frugarsi in modo tanto sbrigativamente immorale da risultare persino comico, allo scopo evidente di assecondare il michelangelo in quelle cose che, a quanto pare, stanno al vertice dei suoi interessi.
Impietrito, uso l’occasione per documentarmi sulla concretezza dei rapporti tra le classi sociali, argomento che conosco solo per sentito dire, e per osservare nel suo habitat un eminente campione della cultura italiana.
Il grand’uomo non manca di nulla: mostre a New York e Parigi, riconoscimenti, villa abusiva sulla duna di Sabaudia, cognome altisonante e, a quanto pare, tessera del partito comunista.
L’indomani, negli spogliatoi, i figli del popolo litigano sul numero dei biglietti da diecimila che hanno individualmente ricevuto, rimarcando discrepanze tra prestazioni e tariffa, arrivando a minacciarsi per supposte ingiustizie; è una zuffa tra veri maschi nella quale il pittore non viene assolutamente coinvolto; sta al di sopra lui, ovviamente.
Nessuno si sente svilito per il fatto di essersi eventualmente lasciato usare. I biglietti da diecimila testimoniano la natura “professionale” della transazione, pertanto onorabilità e virilità non sono in questione. Ragazzi del nord e del sud sembrano condividere lo stesso metro, gli stessi valori, e si sca--ottano a ragion veduta, esclusivamente circa la distribuzione imperfetta dei deca.
Mi resterà l’immagine del pittore, aristocrazia flaccida, sicuro del fatto suo, arenato sul divano nell’oscena vestaglia. Lui sì, che sa trattare con i figli del popolo a suon di bigliettoni. Avvezzo a farsi servire in ogni cosa, stabilisce le distanze, conosce gli uomini. Io, che in caserma praticamente abito con quelle persone e sto loro più vicino per diversi aspetti, risulto come elemento estraneo. Essi intuiscono che giudico e mi tengono alla larga.
Basta, sarà meglio non raccontare cose del genere nel duemilaotto. (segue)
maurizio bernasconi:
Esatto, sarà meglio...
(7°) Ciò che non dimentichiamo supera una selezione assai misteriosa, ma non imparziale. Fra trent’anni ricorderò forse l’odore resinoso e immondo di una palestra. Ricorderò il rimbombo dell’acqua spinta da quattro pagaiatori nella vasca di voga coperta o l’effetto abbacinante del cortile, nel mezzogiorno agostano, verticale come un colpo di clava. Ricorderò quella striscia di spiaggia non nostra, chilometri di sabbia che salgono verso nord, fino all’alta Italia, fino a casa oppure una grandinata memorabile, da spaccare le teste, coi pezzi di ghiaccio che martellano il legno tenero della coperta.
Che dire di certe giornate ventose all’inizio della primavera? Le folate perentorie cercano di strappare di mano la pagaia, ma si annunciano con due secondi di anticipo increspando l’acqua e producendo le riconoscibili marezzature; ecco… preparo l’urto serrando più forte l’impugnatura.
Al contrario, quando il vento è costante e vira secondo la lunghezza del lago, da nord, forma onde che vanno via via crescendo in ampiezza. Certo, solo onde di lago, onde di acque basse, ma nervose; rimbalzando sulle rive finiscono con l’incrociarsi e danno alla superficie un andamento imprevedibile. Poi, vicino alla sponda estrema del sud, si alzano con più forza e frangono. Nell’impossibilità di procedere oltre, gli spruzzi si staccano verso l’alto e in tutte le direzioni. Penetrando in quel vapore elettrico, con il vento sempre più furioso sulla nuca, scompaio dentro una strana oscurità fatta di energia e di luce rifratta. In quel punto imposto la curva per risalire sotto riva, cosicché le onde sbattono sulla fiancata e tentano di scavalcare il paraspruzzi.
Ogni giorno, ogni ora, l’acqua è diversa, l’aria è diversa, io sono diverso.
Mentre li vivo, nel presente, non so prevedere quali saranno i fatti più densi di conseguenze. Cos’avrò da raccontare nel duemilaotto? Un sacco di stupidaggini probabilmente. Ma spero che poi finalmente mi verrà in mente qualcosa di buono nel duemilaotto, una storia più bella, a costo di inventala.
Con la baldanza stereotipata di chi ha già in testa un bel po’ di capelli bianchi, dirò: “Ninfa, vieni qui, ascolta, questa la devi sentire. Chissà quante vicende ho dimenticato, ma questa ascoltala, che sei in tempo”.
Decidiamo di fare una levataccia, usciamo in kappadue io e il cremonese, lui è il capovoga, io dietro. I cremonesi sono uomini di fiume, mettono il culo sul Po tutti i giorni dell’anno, con la nebbia, col ghiaccio e con la canicola, quando è in bassa e quando è in piena, anche se le secche emergono ovunque, anche se un’alluvione pare voler spazzare tutto giù verso Casalmaggiore, relitti vari, canoe e tronchi fluitanti a casaccio. Noi due andiamo d’accordo, siamo gente di fiume; respiriamo quest’oggi al ritmo dei colpi, tranquillamente, ancor prima del levare del sole. Crediamo di essere soli sul lago e pagaiamo sciolti in direzione dello scolmatore che sta proprio alle pendici del Circeo, seguendo sotto costa, lungo la sponda interna, la sponda che alterna canneti, coltivazioni di angurie e persino rovine archeologiche che non ci interessano: resti di ville del primo secolo: ab(b)usive, probabilmente.
La barca fila in modo speciale, così: leggera, liquida, senza sforzo. In tale orario la superficie del lago è perfettamente ferma e trasparente, scura.
Sembra il primo lago primordiale in attesa della creazione delle onde, sorpreso dall’incisione della nostra prua. Siamo una puntina nel solco e facciamo noi stessi la musica. L’assieme fra le nostre Liminat da 223 centimetri è sempre perfetto logicamente, dopo mesi, ma oggi è ancora… più perfetto, non saprei come meglio dire. La punta del kayak è veloce e immobile; neppure il più piccolo beccheggio o rollio.
Dopo mezz’ora siamo all’estremità del lago, in scioltezza. Non si parla. Non si parla mai, quando stanno per accadere realmente i fatti. (a domani per l'ultima puntata)
maurizio bernasconi:
(8°)...i fatti. Ci accorgiamo a un tratto del canottiere finlandese che fila assolutamente silenzioso sotto riva dalla parte opposta, nella striscia d’ombra fredda prodotta dalla vegetazione della duna. A distanza si distingue solo un piccolo segmento bianco appoggiato sull’acqua e il battito della paziente carrellata.
Si fa largo infine anche il sole, emergendo da qualche parte attraverso l’aria umida sopra gli alberi del Parco.
Impostiamo la curva larga, pagaiando lentamente a braccia basse, per mettere la punta nella direzione dalla quale provenivamo; poi, poggiando le pale destre in acqua, lasciamo esaurire l’abbrivio.
Durante la manovra lui ci raggiunge e inizia a sua volta a rallentare per il dietro front. Punta in acqua la pala del remo sinistro e fa perno su quel fulcro.
Il singolo è un filantissimo attrezzo danese, quasi del tutto immerso. Lui dimostra qualche anno più di noi; con un’espressione seria, regale, non ha niente di umano.
Contro l’oscurità dell’acqua, il bianco della coperta stacca, anche i suoi capelli biondo platino staccano, mentre tutti i gli altri colori intorno a noi vanno riprendendo solo gradualmente il loro abituale senso diurno.
Il kayak doppio e lo skiff sono affiancati, prue a nord, pronti, sette metri ciascuno di liuteria affilata.
Niente convenevoli, niente di niente, in nessuna lingua, non serve, respiriamo davanti al vuoto specchio di sei chilometri tutti per noi.
Noto una cosa buffa, una cosa che, almeno, pare buffa. Il finlandese porta gli occhiali. Mai visto un quattrocchi simile. Dio buono se è lungo! Ha il tronco eretto e il carrello del seggiolino regolato molto alto. Nonostante questo il suo equilibrio è assoluto, non pare sull’acqua, ma rivettato alla placca continentale.
Parte, partiamo, così, insieme, il finlandese e noi, all’unisono. Non uno scatto bruciante, di quelli che alzano vortici intorno alle pale, no, è una progressione. Ci curiamo da subito a vicenda, con la coda dell’occhio. La prua dello skiff ci supera alla fine di ogni colpo di quasi mezzo metro, per poi perdere altrettanto durante la fase di recupero.
Il kappadue scivolava come un olio, non forziamo, in attesa di un attacco, ma sentiamo di poter resistere a qualunque cosa. Il finlandese aumenta l’intensità e la frequenza dei colpi con una progressione che sembra predisposta da una macchina. Via via, un poco più forte, di più, di più, di più. E noi uguale, sempre sciolti, con agilità, sentendo l’energia che si accumula. Conteniamo come in una pentola a pressione la voglia di sparare tutto lo sparabile.
Lui invece aumenta in quel modo, ponderato, ma pazzesco. Mancano dei chilometri, fino a quando potrà accelerare?
Passiamo ai mille metri. Ai duemila l’andatura è ormai spettacolare. Non si scherza.
In kappadue, per indurre il capovoga a incrementare il numero dei colpi, non serve parlare, semplicemente il secondo inizia impercettibilmente ad anticipare l’attacco in acqua. E’ quello che faccio; il cremonese non aspettava altro e sembra dire con la schiena “adesso la progressione del suo ca--o del polo nord, gli facciamo vedere dove se la mette”. Così aumentiamo di brutto, ma non proprio a manetta, ne teniamo ancora per dopo.
Oggi ne avremmo per tutti i finlandesi del mondo. E così si va avanti in parallelo, lui resiste, noi non cediamo.
Chissà cosa pensano i finlandesi in momenti come questo. Intuisco al mio fianco il gesto potentissimo e regolare. Quella sua pala azzurra crociata ci passa a un metro durante il recupero, sempre alla stessa identica distanza, sempre a un millimetro dalla superficie, come una sciabolata. E’ chiaro che regge alla nostra accelerazione e controlla; noi aumentiamo, aumentiamo, aumentiamo e lui sta lì incollato come una decalcomania.
Tremila metri, quattromila… passiamo ai cinquemila.
Anche l’elfo con gli occhiali è scatenato, in cima al suo seggiolino come un signore. Io e il cremonese stupiti di noi stessi, ci rendiamo conto di fare qualcosa di superiore rispetto al normale; non è impossibile aumentare ancora, si può, si può, eccoci. Si vede che è giornata. Ultimi cinquecento metri.
In un momento simile nessuno si preoccuperebbe di immaginare se poi, nell’avvenire del duemilaotto, arriverà una certa Ninfa a chiedere: ma tra uno skiff e un kappadue, chi la spunta?
Quello va avanti due spanne a ogni remata e poi le perde; così, un’altalena dall’inizio alla fine. Ma le barche volano come due raggi di luce paralleli fino a sfilare i piloni di cemento del ponte e dopo non c’è più lago per continuare, è fatta. Diciamo che non vince nessuno. A nessuno comunque premeva dimostrare di averlo più grosso. Il finlandese dev’essere un finlandese intelligente, frena la barca poggiando le pale. Il mio capovoga rilassa tutta la schiena e quasi si affloscia. Abbassiamo le spalle, le braccia. Ognuno è assorto in se stesso, respiriamo forte, manteniamo il silenzio.
Anche lui logicamente tace, lui che gira il mondo per vincere premi in denaro e non è obbligato come noi a stare per forza a Sabaudia. Lui che se ne va quando vuole perché è libero, libero come una libellula, libero di sparire prima di domani. Lui, libero di farsi una nuova fidanzata in ogni nuovo campo di gara, con quei cazzuti occhiali che proprio non hanno senso.
FINE DELLA PRIMA PARTE
[Nella seconda parte, dopo oltre trent'anni, Ninfa riuscirà a scovare il protagonista dalle parti del Lago di Massaciuccoli...]
maurizio bernasconi:
Alcuni gentili lettori (ben due persone) mi hanno rintracciato privatamente per informarsi sulle date di pubblicazione della seconda parte del racconto ambientato a Sabaudia. Sul momento non ho saputo rispondere. Veramente pensavo di lasciar perdere. L’esperimento di un racconto a puntate partiva dall’ipotesi che potesse scaturire un certo desiderio di comunicare, diciamo pure, un certo desiderio di provare a parlare di noi stessi e del canoismo. Mi aspettavo infatti che si producesse dell’interattività, che il racconto fosse spinto nell’una o nell’altra direzione attraverso le osservazioni dei lettori. Del problema della nostra immagine all’esterno, ci s’è occupati anche di recente. Mi riferisco alle difficolà che incontra anche l’ufficio stampa della federazione. Gli atleti sanno vincere i mondiali ma stentano a trovare le parole per inserirsi nei canali della comunicazione e non riescono a restituire un’immagine all’altezza dello sport che praticano, cosa che naturalmente, se dovesse riuscire, potrebbe attirare altri praticanti e generare ben altre risorse. Una gradevole eccezione è stata la battuta del vincitore della discesa classica di Ivrea che durante un’intervista a caldo è stato capace di descrivere un proprio sentimento di gara “selvaggio”, trovando la parola giusta. Starcene nella nostra nicchia oscura offre naturalmente anche dei vantaggi... E’ sicuro che molti provino inoltre un’istintiva repulsione a manifestare le private e profonde esperienze che la canoa rende possibili: è pudore, niente da ridire. Molti chiuderebbero la faccenda con un: "meglio pagaiare e tacere, chi parla troppo non fa e no sa!"; avrebbero anche buone ragioni, ma solo in parte, per esempio, nell’alpinismo esistono vaste biblioteche; le avventure di montagna sono state rese immortali e si possono leggere con passione. Tutto sta nella qualità del discorso e della scrittura. Non c’è proprio nessuno che vuole dire la sua?
Andrea Gangemi:
Maurizio,
io sono molto interessato al tuo racconto, ma purtroppo il poco tempo libero mi impedisce di leggerlo, mi ero riproposto di salvare le puntate e rileggerle con calma, magari in una tenda durante un week end canoistico o una cosa del genere.
Insomma, anche se non ho ancora iniziato la lettura della prima parte... voglio la seconda parte :D
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