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L'INVERNO FRA I PALETTI DELLO SLALOM
maurizio bernasconi:
Perché i primi cinque o dieci ciunisti al mondo, in tutte le epoche e direi anche in tutte le specialità, compreso nella flat, sembrano dei fenomeni, dei marziani? Osserviamo i distacchi dal gruppetto dei fenomeni fino al trentesimo piazzamento in C1 e poi lo stesso in K1 e vedremo una bella differenza. Il trentesimo K è fuori dalla finale per un soffio, il trentesimo C1 ha mancato almeno due o tre porte. (Correggetemi se sbaglio). Infatti gli atleti di vertice sono fenomeni ANCHE perché abbiamo pochi praticanti. Per completezza dell'esperimento Ettore, dovremmo ipotizzare anche un numero di praticanti uguale fra C e K. Allora sarebbe chiaro una volta per tutte che la vera canoa da fiume è la canadese. I canadesi restano ancora indietro dunque per: pesi e misure, daccordo, minor numero di praticanti, e ANCHE perché la tecnica della pagaiata in C obbliga a tempi di apprendimento più lunghi e al possesso di notevoli qualità individuali. Dunque non esiste una regola intrinseca al C perché debba andare più piano. Il kayak è un attrezzo frutto di compromessi. Occorreva arpionare una foca, oppure trasportare la nonna niosa a morire su un iceberg alla deriva fuorimano, occorreva star lì sei ore a mollo per pescare un paio di salmoni o far giocare all'eskimo i bambini a fine giugno sulla banchisa. Per tali occupazioni un kayak può anche andare, ma scendere un fiume è altra cosa! Quella posizione seduta da sedentari, quei culi incollati dalla gravità nel seggiolino, quel lavoro col busto e i fianchi più o meno bloccati come impiegati... non è cosa! Im/piegati, cioé essersi piegati ad accettare un lavoro; piegati dunque sottomessi, la schiena esposta alle frustate, seduti come esseri inutili, come intellettuali, come automobilisti, come pensionati che giocano a briscola.
Il ciunista sta invece col dorso eretto come un cavalliere, come un uomo. E' inginocchiato come uno che medita Zen o che parla da pari a pari con Dio.
In più: Ci=l'energia, almeno per i cinesi.
Ettore Ivaldi:
Una domenica mattina particolarmente fruttuosa dal punto di vista tecnico. Sarà stata la paella del party della sera precedente condita da una fresca e dissetante sangria; sarà stata l’aria di festa; sarà stata l’atmosfera degli addii; saranno stati i pochi slalomisti sul canale, ma l’allenamento si è dimostrato molto approfondito ed interessante. Abbiamo lavorato sull’effetto “molla” nelle risalite. Di che cosa si tratti cerco di spiegarlo nel miglior modo possibile se pur soggetto ad inevitabili e soggettive interpretazioni.
In sostanza per ruotare velocemente nelle risalite bisogna lasciare la coda libera di agire. La pala in acqua svolge da prima la funzione di timone, per preparare l’entrata, e poi assume il ruolo di fulcro nella rotazione. A questo punto la stessa pala, assolti i compiti precedenti, non deve fare altro che aspettare la conclusione della rotazione per tornare ad essere operativa non più staticamente. In questo frangente di tempo abbiamo la possibilità di caricarci di energia flettendo il braccio alto fino a portarlo praticamente dietro la testa. In fase di uscita l’impulso di spinta partirà proprio dal braccio alto che attiverà così l’effetto molla sopra denominato.
C’è un semplice segreto per ottenere il massimo da questo gesto: rispettare i tempi di esecuzione che sono distinti per ogni singola parte che interviene nell’azione e cioè per braccia, spalle, gambe, canoa, pala. Ognuno di questi elementi ha velocità diverse in tempi diversi. Molto spesso però non è facile da far capire agli atleti che vorrebbero sempre far girare le loro braccia alla velocità con cui il famoso road runner Beep-Beep scappa da Wile Coyote.
L’abbiamo già sottolineato - vi ricordate? - la mente lavora più veloce delle braccia che se non controllate vengono prese dall’euforia di seguire i pensieri che corrono alla velocità della luce.
Per mettere in pratica tutto ciò bisogna avere molta tranquillità e dedicare allenamenti specifici a questo tipo di lavoro. Per qualcuno può sembrare una perdita di tempo, ma in realtà non è così per chi vuole costruire un risultato.
Al di là di tutto ciò volevo anche cercare di rispondere alla mia amica Elena che si chiedeva che cosa succede per le donne in kayak su percorsi aperti com’è stato quello degli “Australian Open” da poco conclusi. Ovviamente dobbiamo ricorrere sempre alle statistiche che ci illuminano che ci dicono che la media nel 2010 su gare di coppa, europei e mondiali per il K1 women era del 17,2 in finale per le vincitrici che si abbassa al 13,5% in qualifica. Corinna Kulne ha vinto in Australia con un distacco poco superiore al 9%. Quindi mi sento di affermare che anche per le donne le percentuali calano su percorsi più aperti. Mi piace definirli da “gigante” come nello sci alpino.
Il motivo di tutto ciò, sempre secondo me, non dipende da quanto espresso da Francesco Iacobelli legato cioè al fatto che la doppia pala “ avrà un utilizzo maggiore, in proporzione, nell'avanzamento rispetto alla ricerca di stabilità, rapportata alla monopala”, ma deriva dal fatto (come ho cercato di esprimere nel post precedente) che: “...sui percorsi chiusi i kayak rischiano moltissimo e riescono a ottenere tempi molto, molto veloci. Tutto ciò deriva anche dall’altissima competitività che c’è in questa categoria. Se poi guardiamo attentamente il gesto tecnico ci accorgeremo che le canadesi hanno occasione di mettere in essere molto più spesso una risalita classica, mentre i Kayak sono costretti a cercare di limare centesimi in ogni azioni e quindi in ogni porta. Ne deriva che su percorsi come quello di Penrith, dove le risalite non presentavano la possibilità di tagliare più di tanto, i tempi di distacco si assottigliano, perché fondamentalmente, visto il livello raggiunto dai top paddlers della canadese, tra le due specialità non c’è un divario molto netto”.
Il mitico Maurizio, che da molti anni non vedo e che immagino scrivere i suoi illuminanti scritti “inginocchiato” davanti al mare all’imbrunire, con folta barba e avvolto da parei colorati, ci ricorda la storia e la ragione per cui si pagaia seduti o inginocchiati. Il fatto di avere pochi top paddlers in C1 e molti di più in kayak esce, secondo me, da un retaggio culturale antico e speriamo superato. Era in uso infatti segare la pala in due e mettere in canadese quei giovani che non dimostravano di aver talento con la pagaia da kayak.
Non concordo con il fatto che la canadese è più complessa tecnicamente. In realtà ritengo esattamente l’opposto specialmente per il suo apprendimento in giovanissima età. La pensavo come Maurizio fino a luglio 2005 momento in cui Raffy, il mio figlio più piccolo classe 1997, è salito sul C1 da discesa di Vladi Panato attratto da quella canoa rossa e ovviamente dalla leggenda vivente di Vladi. In quel momento mi si è aperto un mondo e ho capito, guardando incantato il piccolo C1, che non c’è nulla di più naturale che pagaiare inginocchiati con una pagaia monopala. La possibilità poi, per chi inizia, di concentrarsi su un solo lato e su una pagaia monopala permette di essere più attenti e sensibili allo strumento che ci troviamo fra le mani.
Fatemi spendere una parola però anche per i kayak, se mai ne avessero bisogno. E’ vero che si è seduti, ma ricordiamoci anche che i migliori e più sensibili propriocettori sono proprio lì... Possiamo ricevere un sacco di informazioni che poi trasformiamo, in base alla nostra abilità, in gesti più o meno atletici, eleganti, vincenti, emozionanti!
Occhio all’onda! Ettore Ivaldi
Penrith, 27 febbraio 2011
maurizio bernasconi:
Mentre consumo l'orizzonte e do tempo alla barba di crescere mi capita anche di fare delle osservazioni su giovanissimi canoisti (12/16 anni) che si avvicinano al C1 in modo quasi del tutto ingenuo, sia ragazzi sia ragazze. Alcuni sono kayakisti e ci cimentano in canadese solo per allenamento, qualcuno mostra di scoprirsi canadese istintivo puro e sembra già definitivamente orientato alla monopala. Come al solito.
Ebbene vedo due fenomeni:
- Tutti cercano di dirigere e procedere con aggiustamenti in debordé e riescono a districarsi benino fra le porte ancor prima di saper condurre una linea dritta precisa. Nessuno di loro sente la necessità di reinventare il gesto del vortice tantomeno sfregando il manico contro il fianco della barca. In effetti guardando un filmato attuale sul fiume e pure in acqua piatta non vediamo più distintamente eseguire il vortice dagli atleti evoluti; ma il fatto di non vederlo ci autorizza a credere che l'essenza, l'embrione di quel gesto non sia più presente nella pagaiata canadese? Io non lo so. Qui dovrebbe pronunciarsi un tecnico della canadese più aggiornato. Altra domanda è questa: anche ammesso logicamente che non serve eseguire ogni pagaiata con una componente di vortice, daccordo, possiamo per questo stabilire che si può oggi fare a meno di attraversare una fase iniziale di apprendimento nella quale il vortice viene appreso ed eseguito in modo scolastico? Dunque: visto che da soli non lo fanno (non in tempi rapidi almeno), è allora necessario che qualcuno glielo insegni oppure viene da solo prima o poi, oppure non serve più del tutto?
- Altra cosa che osservo: nessuno prova se non incidentalmente a spostare il peso dalla parte opposta alla pagaiata, atteggiamento che una volta era considerato assolutamente imprescindibile della tecnica canadese. E' interessante notare che le tecniche abbiano un'evoluzione eppure il fatto che il peso si portasse all'esterno opposto alla pagaiata non poteva essere solo un vezzo d'altri tempi, era qualcosa che evidentemente rispondeva a una logica. Ancora una domanda: potrebbe essere utile al giovane atleta conoscere la tecnica, ed eventualmente anche gli errori, di quelli che praticavano lo stesso gesto in precedenza?
Ettore Ivaldi:
Premessa onde evitare confusioni: parliamo di slalom -
Il “J stroke”, come lo chiamano gli americani, si è evoluto parecchio nel corso degli anni e specialmente nella tecnica dello slalom! Non si sfrega più infatti il manico della pagaia sul bordo della canoa, permettendo così agli arnesi del mestiere di mantenersi intatti per lungo tempo ( il vecchio e annoso problema delle canadesi).
Le imbarcazioni e i tracciati su canali artificiali hanno comunque un peso molto determinante in tutto ciò. Aggiungo anche che la tecnica si è raffinata di molto. La conseguenza ovvia è che viene usato in maniera diversa e con molta parsimonia. I canadesi più evoluti lo utilizzano in una fase statica perché la canoa è portata principalmente diritta con il lavoro delle gambe e dei fianchi. In sostanza il “vortice” - in italiano - frena l’avanzamento ed è stato sostituito con una sorta di richiami di punta in fase propulsiva della pagaiata o, come già detto, da un costante aggiustamento della direzione voluta attraverso l’inclinazione dei fianchi.
Detto ciò è interessante il primo quesito che pone l’uomo dalla barba lunga e dall’infinito consumato e cioè: “è giusto che qualcuno glielo insegni oppure viene da solo prima o poi, oppure non serve più del tutto”?
Ritengo che i gesti e i movimenti in generale dovrebbero essere acquisiti attraverso una scoperta motoria personale. L’allenatore, o in questo caso anche il maestro o l’istruttore, deve creare gli “stati di necessità” con l’obiettivo di far scoprire all’allievo le soluzioni più adatte alle esigenze di quel momento. Le risposte passeranno attraverso la soggettività di ognuno che saprà e dovrà imparare ad elaborare velocemente gli stimoli esterni. Per essere più concreti dobbiamo dire al nostro allievo di partire da un punto e arrivare in un’altro punto il più velocemente possibile e con il minor dispendio di energia. Per fare ciò può impiegarci molto tempo oppure può scoprire e trovare la soluzione molto rapidamente. In tutti e due i casi comunque il gesto finale resterà acquisito e sarà certamente il più adatto alle sue caratteristiche. Attenzione! Il tutto deve essere logicamente diretto passo per passo dalle proposte intelligenti di chi lo segue. Strada questa decisamente più costosa e faticosa rispetto a quella di elencare una serie di precise e schematiche indicazioni tecniche.
L’allievo se riceverà direttamente da noi la risposta finale, statene certi, diventerà al massimo un ottimo esecutore, ma non necessariamente il più veloce. Ricordiamoci che le nostre risposte dirette, in questo caso la spiegazione di come fare il J-stroke, passano attraverso il nostro vissuto o alle nostre osservazioni su schemi motori ben precisi. Il problema nasce da tutta una serie di filtri interpretativi che si mettono tra l’allenatore e il suo atleta. Quest’ultimo non riuscirà ad esprimere al 100% le sue potenzialità, vuoi per una pigrizia mentale, vuoi per risposte che in parte ha già avuto. L’ho già sottolineato molte volte nei miei scritti tecnici: il pericolo più grande per un allenatore è quello di limitare l’atleta ad eseguire manovre e tecniche che ha nella testa l’allenatore, ma non nell’atleta che deve invece essere e rimanere il vero protagonista tecnico di se stesso. Il nostro compito diventa quello di proporre delle scelte non in modo categorico, ma dobbiamo dirigere alla scoperta personale.
Sul secondo dubbio amletico di Maurizio mi sento di dire che in slalom l’obiettivo oggi è quello di mantenere la canoa il più possibile in equilibrio. Solo in uno stato di massimo equilibrio l’atleta potrà effettivamente esprimere meglio la sua azione propulsiva anche nelle varie fasi di rotazione della canoa stessa. Il gioco del peso c’è, ma è molto sottile. Se poi è utile per un giovane conoscere gli errori di quelli che praticavano lo stesso gesto in precedenza mi sento sempre di rispondere che in effetti c’è così tanto da lavorare che perdere tempo sugli errori del passato forse non ne vale la pena. Considerando soprattutto il fatto che materiali, mezzi e campi di gara si sono decisamente evoluti seguendo sempre... gli stati di necessità.
Altra cosa è per un giovane conoscere la storia del proprio sport, ma qui non sono obiettivo e quindi lascio la disquisizione ad altri... io la metterei obbligatoria nei corsi per istruttori ed allenatori, perché se ci dimentichiamo del nostro passato, faticheremo a trovare il nostro futuro.
Occhio all’onda! Ettore Ivaldi
Ettore Ivaldi:
Se c’è qualcuno che è in grado di darmi una spiegazione non dico scientifica, ma quantomeno plausibile, sul fatto che ogni volta che riprendo le cuffiette precedentemente riposte con cura nella borsa, le ritrovo immancabilmente tutte arricciate e aggrovigliate, lo ringrazio in anticipo! Perdo una vita per sbrogliarle e così mi innervosisco per nulla. Va beh, aspetto vostre delucidazioni e suggerimenti su come ripiegare questi fili magici. Nel frattempo vi faccio partecipi di una considerazione nata ieri durante il lavoro tecnico con i miei giovani atleti brasiliani. Ah forse ho saltato un passaggio, forse non vi ho detto che sono partito dall’Australia il primo marzo per venire qui a Foz do Iguazu nello stato del Paranà. Ricordate i mondiali del 2007? C’è un canale eccezionale e soprattutto un progetto di sviluppo per lo slalom che ha dell’incredibile in vista delle Olimpiadi di Rio 2016, ma di questo vi scriverò un’altra volta. Volevo parlare delle risalite e come approcciarsi ad esse. In un precedente intervento -
Re: L'INVERNO FRA I PALETTI DELLO SLALOM
« Risposta #11 inserita:: Febbraio 10, 2011, 10:52:41 pm ») -
davo per acquisito in senso generale questa fase delle porta da fare controcorrente e ne rimango convinto per quanto riguarda gli atleti di livello e quelli che hanno una certa esperienza. Ma la cosa non è assolutamente scontata nei giovani. Nasce con loro una problematica chiarissima e cioè quella di far capire e percepire come arrivare nella risalita e quale deve essere la velocità di entrata. Ecco perché ieri ho proposto varie soluzioni o meglio varie possibilità da provare e da percepire in acqua. Ho suggerito di cambiare l’approccio prima sperimentando un arrivo molto veloce, poi via via, sempre più lento (per quanto possa essere lento un arrivo su un filone d’acqua comunque di per sé veloce). Ad ogni tentativo i giovani junior provavano ad entrare con velocità diverse. Poi ci siamo concentrati per capire e percepire (scusate se insisto su questo verbo che va preso in considerazione sotto l’aspetto fisico e come esperienza sensoriale) come reagisce la nostra canoa a velocità diverse e soprattutto come ci si deve comportare con il corpo e la pala. Alla fine di due ore di prove su due porte i ragazzi hanno fatto loro un principio fondamentale che riassumerei velocemente in questo assunto: la tua velocità si deve relazionare alla possibilità di mantenere il più a lungo possibile la pala in acqua nell’ultima fase di avvicinamento alla porta. Sia nel caso in cui la risalita venga risolta con la pala in acqua dalla parte interna, sia con il colpo largo esterno. Diventa fondamentale l’approccio per guidare la canoa all’intero della risalita con il principio che è meglio perdere un po’ di velocità in fase di entrata, ma mantenerla sempre per tutta la rotazione della stessa all’interno e cercare di accelerare in fase di uscita. In questo modo si avrà sempre la situazione sotto controllo. Anche dal punti di vista fisico ci sarà un minor dispendio di energie con la possibilità di recuperare proprio in questa fase che di per sé sembrerebbe assurdo. Giusto per far capire anche per chi arriva dal nuoto... la risalita è come una virata nello stile libero o crawl. Affronta cioè le stesse problematiche e serve all’atleta per recuperare energie. Per niente i record in vasca corta sono più bassi. Considerate che nella vasca da 25 mt. sui 100 metri s.l. è più veloce del 3,8% mentre nei 200 mt. s.l. si arriva al 4,5%.
Sostanzialmente troviamo che la virata presenta le seguenti problematiche:
- Deve cambiare il movimento lineare in avanti in modo da imprimere al suo corpo un movimento rotatorio
- Effettuando la capriola deve eseguire una mezza torsione in modo che
dopo la spinta data con i piedi, si trovi con il petto rivolto verso il basso
- Deve completare la virata in modo che i piedi non siano né troppo vicini
né troppo lontani per dare una spinta
... chiaro il concetto?
Occhio all’onda! Ettore Ivaldi
Foz do Iguazu, 9 marzo 2011
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