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Kayak roll
Lorenzo Molinari:
Accolgo l’invito di Marittimo e apro un nuovo topic artico sul roll, o kayak roll (o canoe roll) o Greenland roll, impropriamente chiamato eskimo roll e, in Italia, eskimo.
Non posso che trovarmi d’accordo anche con l’ultimo intervento di RossoFiorentino, postato nel topic “Pagaia Groenlandese o Tradizionale”.
Il kayak, o qajaq in lingua Inuit o iqyax in lingua Unangax, era una fonte di vita per quelle popolazioni; era uno dei beni più preziosi, se non il più prezioso di ogni famiglia, e per questo era fonte di gioia, quando si ritornava dalla cacccia con carne, pelli, grasso…
Proviamo però a spostarci dietro le quinte. Andare a caccia in kayak era indubbiamente pericoloso e poteva generare paura, angoscia, depressione e, fisicamente, lesioni, ferite o morte. Quando la stagione estiva volgeva al termine, non c’era tempo per fermarsi, c’era la necessità di prepararsi per il lungo e gelido inverno con adeguate scorte alimentari, di combustibile, di pelli ad uso personale e, dal 1500 in avanti, anche di pellami in genere, che l’anno dopo, nella successiva stagione estiva, avrebbero scambiato con prodotti che, via via, diventavano ai loro occhi sempre più necessari se non essenziali, offerti da balenieri e commercianti europei.
Come è nell’indole umana, archiviavano le esperienze negative e cercavano di esaltare le gioie, le soddisfazioni, la bellezza, l’entusiasmo alla vita, che, nonostante la sua durezza, valeva la pena, mettendo al mondo figli da crescere, sfamare, vestire, istruire ma era richiesta determinazione e volontà per superare avversità e convivere con una natura molto più inospitale e aspra che in altri luoghi del mondo. I morti si coprivano di sassi o, quando possibile, si sotterravano e si compiangevano al buio, nel silenzio del proprio cuore, perché, quando il sole brillava, non restava che guardare avanti e pensare alla vita, anziché perdere tempo a scrivere pipponi come i miei sul Foum di CK Italia.
La vita delle popolazioni artiche era di una durezza a noi incomprensibile. Chiunque di noi sarebbe emigrato verso sud, eppure questi popoli non emigrarono. Addirittura alcune etnie pare che si trovarono spiazzate nei momenti di minore glaciazione e soffrirono, perché non seppero adattarsi con le loro tecniche e il loro stile di vita a climi più miti!
Da primavera avanzata e per tutta la stagione estiva, per procacciarsi il cibo, sempre lo stesso, poi preparato più o meno sempre nello stesso modo, uscivano in kayak in mare, talvolta si ritrovavano a largo con venti che tagliavano la faccia e mare agitato, non potendo contare su 3BMeteo, e non erano neppure rare le onde anomale, dovute alla rottura e caduta in acqua di enormi blocchi di ghiaccio. I violenti strattoni delle prede arpionate o gli attacchi di quelle mancate o disturbate e innervosite completavano il quadretto, mettendo in serio pericolo l’incolumità dei kayaker, che rischiavano di capovolgersi.
Alcune etnie zavorravano i kayak per renderli quasi irribaltabili, altre prediligevano scafi dalle forme molto larghe e dai fondi piatti, per ottenere una grande stabilità primaria (tanto per ribadire che i kayak impiegati erano delle più varie fogge e non c’era il kayak ideale - come spesso si crede - visto che fogge anche molto diverse tra loro erano impiegate per i medesimi scopi in condizioni e mari analoghi da etnie diverse). Questi popoli, avendo quasi azzerato il rischio di ribaltarsi, non conoscevano affatto le manovre del kayak roll. Infatti i kayaker delle popolazioni artiche non erano tutti abili nel roll, anzi, è vero il contrario.
Alcune etnie, come gli Inuit, impiegavano kayak non così stabili da annullare il rischio di ribaltarsi e per questo si trovarono a sviluppare le tecniche del kayak roll.
Ribaltarsi a quelle latitudini, se non si era in grado di eseguire il kayak roll, significava morire in breve per ipotermia; ma ancor prima che subentrasse l’ipotermia, si moriva per annegamento, poiché non sapevano nuotare. Quando mai avrebbero potuto imparare a nuotare in quelle acque gelide?
Anche se fossero stati capaci, sarebbero comunque stati impediti dai pesanti indumenti che indossavano per proteggersi dal freddo, che si sarebbero impregnati d’acqua; il panico li avrebbe colti e sarebbero andati pian piano a picco. Senz’altro qualcuno si salvò aiutato dai compagni, se si trovava in prossimità della riva e se riuscivano a tenerlo al caldo, ma non andò sempre così.
Immaginate di non saper nuotare e di sentirvi costretti ad andare in kayak a cacciare in un mare gelido, anche lontani da riva. Appare allora comprensibile come tra i maschi di tali popolazioni potesse sorgere la fobia dell'acqua allo stato liquido, al punto da provare terrore alla sola idea di salire su un kayak. Per quanto ci si avvicinasse al kayak da molto giovani e facesse parte del vissuto quotidiano, non erano poi così rari i casi di giovani che non riuscivano a superare la paura iniziale e si faceva prendere da questa fobia. Chi non imparava a condurre un kayak sentiva venir meno la propria dignità di uomo, diventava un problema enorme per tutti, un peso per gli altri e non potendo cacciare, non poteva mettere su famiglia, non poteva occuparsi della sopravvivenza di una moglie, di figli, dei suoi genitori. Tali fobie erano oltretutto alimentate dagli incidenti mortali che prima o poi capitavano in ogni comunità e che colpivano duramente la famiglia di appartenenza del disgraziato.
Capitava che nelle battute di caccia qualcuno si ribaltasse e crepasse, o perché non sapeva eseguire il roll o perché non era così esperto nella manovra, dato che, ribaltandosi mentre di cacciava, ci si poteva trovare impigliati in una cima o senza più il contatto con la pagaia, e non era particolarmente piacevole esercitarsi a fine giornata nelle acque davanti a casa. Ogni morto annegato in un villaggio aumentava il terrore nelle psiche dei più deboli, al punto che capitava che alcuni si rifiutassero di salire in kayak e, di conseguenza, di cacciare e sostenere la propria famiglia. Immaginate la morte in kayak di un amico non per “fatalità”, né per errore, ma solo perché - come voi - non sapeva eseguire il roll; annegato in fiume che scorre in un canyon senza possibilità di sbarco, che aveste dovuto scendere anche voi il giorno seguente!
Chi vinceva la paura inziale, la maggior parte dei maschi, non avevano tuttavia il coraggio o lo stato d’animo per imparare il roll. Immaginate, ancora, di dover imparare questa manovra senza saper nuotare, al circolo polare artico, non in piscina o nei nostri mari caldi, senza la maschera al volto per recuperare l’orientamento stando sotto sopra e vedere la posizione della pala, con indumenti che, per quanto ben studiati, non sono certamente come le nostre mute stagne e le nostre maglie tecniche, pur potendo contare sull’assistenza di un maestro, le lezioni potrebbero diventare penose e angoscianti, se non vedeste in breve i primi risultati incoraggianti. E spesso tardano a venire, non s’impara al primo colpo. spesso accade. Per questo, la maggior parte – sottolineo – la maggior parte ci rinunciava!
Nel nostro immaginario pensiamo che fossero tutti capaci e bravi, ma non era affatto così. Bisognava superare la paura iniziale e, poi, ci voleva tempo, come in ogni cosa, per diventare esperti a costruire il proprio kayak insieme alle mogli, a pagaiare, a cacciare, a superare i drammi, e pochi diventavano dei veri esperti anche nel roll, capaci di raddrizzarsi in qualunque posizione e situazione.
Cito dal mio libro:
"Stupisce, invece, che la maggioranza di coloro che avrebbero dovuto conoscere il kayak roll non fosse capace di eseguirlo: nel 1911, quando il kayak era ancora uno strumento primario per la sopravvivenza degli Inuit, Hans Reynolds realizzò uno studio statistico su 2.228 kayaker attivi in Groenlandia, da cui risultò che solo 867, pari al 39%, era capace di eseguire il kayak roll, nonostante da sempre venissero organizzate gare e spettacoli di kayak roll d’estate tra quelle popolazioni."
All’inizio del 1900 furono eseguite anche diverse indagini medico-psichiatriche tra gli Inuit sulle loro fobie e paure (oggi definibili “attacchi di panico”), causate dal kayak e su come, in alcuni, fossero devastanti e limitanti.
Andrea Rossi:
Molto interessante, grazie Lorenzo.
Mi hai messo curiosità e così ho fatto una breve ricerca sulle paure dei cacc-atori di andare in kayak, e gli Inuit gli avevano pure dato un nome: nangierneq.
https://en.wikipedia.org/wiki/Kayak_angst
https://www.gwern.net/docs/psychology/1963-gussow.pdf
Se hai altri link a riguardo mi piacerebbe leggerli!
Siamo davvero dei privilegiati, noi che possiamo andare in canoa per puro piacere, per spirito di avventura, per fare "attività fisica" o addirittura per cercare il rischio o l'adrenalina...
RossoFiorentino:
Per tornare in tema:
Lorenzo ha scritto sul roll una base praticamente perfetta, sia presentando dati molto interessanti che dando sprazzi di una visione personale sulla necessità umana di festeggiare le gioie e dimenticare i dolori che condivido pienamente. D’altronde prendere qualche pezzo di legno incastrato, coprirlo con della pelle di foca e farsi un giro al largo nel Mar Glaciale Artico, il cui nome è già un programma, non sembra proprio l’idea migliore dal punto di vista della sicurezza personale.
Le prime fonti europee sul kayak rolling, di cui sono a conoscenza, risalgo agli inizi del 1600 quando la corte danese, probabilmente a causa dell’abominevole pratica da parte degli esploratori di portarsi degli indigeni come souvenir, ebbe modo di osservare uno spettacolo di rolling da parte di alcuni cacc-atori groenlandesi. In particolare sul rapporto Danimarca/Groenlandia ci sarebbe da scrivere molto visto che l’incontro Inuit e Vichinghi è stato il primo contatto fra Americani ed Europei e che forse già lì troviamo le prime tracce scritte di kayak ma questa è un’altra storia.
Oggi la pratica del rolling tradizionale è portata avanti specialmente in Groenlandia grazie ad associazione come il Qaannat Kattuffiat che promuove ogni anno il Campionato Nazionale Groenlandese di Kayak e che sprona i giovani a continuare una cultura che ha perso la sua ragione di sopravvivenza ma che è stata necessaria ancora per i loro Nonni. Anche sul rapido passaggio dalla cultura tradizionale groenlandese a quella moderna e sulle sue terribili conseguenze ci sarebbe molto da scrivere ma per adesso sorvoliamo.
In particolare il campionato dedica una delle sue prove più importanti ad una sfida di rolling in cui i kayaker possono cimentarsi in ben 35 roll e vengono valutati nella precisione, eleganza e velocità di esecuzione. Proprio sul numero dei roll mi riallaccio alle difficoltà di cui parlava Lorenzo a proposito della cacc-a su kayak. Molte di queste mosse infatti ricalcano situazioni reali ed estreme in cui il cacc-atore poteva trovarsi, esistono roll che escludono l’utilizzo di una o due mani, oppure roll in cui una mano è impegnata a tenere un oggetto che nella simulazione non si vorrebbe perdere durante il ribaltamento, fino ad arrivare a pratiche come il “walrus pull” (tiro del tricheco) in cui diversi uomini tirano lateralmente, tramite una corda, un kayaker che deve fare di tutto per non ribaltarsi completamente. In ogni caso è bene ricordare che è purtroppo una cultura ormai marginale e che anche se per fortuna sta riscuotendo un discreto successo ha perso le sue caratteristiche ataviche. Mi pare che sia rimasto un solo paesino sperduto nel nord della Groenlandia che utilizza ancora attivamente il kayak come mezzo per il sostentamento.
In ogni caso vi suggerisco di dare un’occhiata al campionato di cui parlo, più che una competizione è infatti una meravigliosa festa in cui un popolo tiene viva una pratica secolare se non millenaria ed è una vera gioia per gli occhi. In particolare questo corto in inglese disponibile su YouTube è un ottimo primo approccio: https://youtu.be/3sKmX40HA6Y
Lorenzo Molinari:
Sono contento di leggere che il mio post abbia incuriosito e spinto ad allagare la ricerca. Approfondendo si comprende come la realtà dell'andare in kayak nei mari artici fosse piuttosto diversa da come la immaginiamo.
Io stesso ignoravo che tra i cacc1atori esperti (sottolineo, esperti) vi potesse essere un problema di angoscia così rilevante da non farli più salire in kayak, se non addirittura isolarsi o indurli al suicidio.
Nelle mie ricerche ho avuto la fortuna di essere introdotto a queste tematiche dal mitico Ken Taylor, il “padre” dei nostri kayak groenlandesi, con cui ho avuto uno scambio di corrispondenza. Le mie fonti sono analoghe a quelle indicate da Andrea Rossi, e sono partito proprio dall'articolo di Ken "Kayak Angst", che si trova all'URL:
https://kayakgreenland1959.wordpress.com/2017/11/05/kayak-angst/
Come scrive RossoFiorentino, i primi contatti tra europei e Inuit avvennero in tempi assai remoti. Il primo di cui si ha notizia fu il vichingo Erik il Rosso, che si stabilì in Groenlandia nel 982 d.C., dove creò una colonia, Pare che gli europei di questa colonia non ebbero grandi scambi con le popolazioni locali, nel senso che i locali non si avvicinarono alle conoscenze e tecnologie europee e viceversa, se non marginalmente; in altre parole, da parte europea non venero adottati i kayak.
La colonia venne abbandonata intorno al 1350. Poi fino al 1500 con l’avvento della cacca alla balena, non vi furono contatti con i popoli artici del Nord America, che comunque furono sempre visti come fonte bizzarra di spettacolo con i loro kayak, e nel 1605 furono fatti esibire anche davanti al re Christian IV di Danimarca.
Lorenzo Molinari:
Che le popolazioni artiche non se la passassero bene e i problemi depressivi fossero diffusi anche tra queste popolazioni, come oggi tra noi, ancor prima che l’occidente cambiasse radicalmente il loro modo di vivere e spingesse molti all’alcolismo, lo dimostra una ricerca, per quanto limitata alla Pelly Bay nel Distretto di Keewatin, nei Territori del Nord Ovest in Canada.
I Netsilik Inuit, la piccola popolazione che viveva in questa zona (nel 1950 si contavano solo 2.000 persone in tutto il distretto), rimasero isolati, a causa degli inverni rigidi e della mancanza di vie di navigazione interna, e furono tra le ultime popolazioni indigene del nord a incontrare missionari cristiani, solo dagli anni 1960 subì un’accelerata del processo di occidentalizzazione.
L’antropologo canadese Asen Balikci, studiando questa etnia negli anni 1959 e 1960, scoprì che il tasso di suicidi era oltre 30 volte quello negli USA durante e subito dopo la Grande depressione del 1929! La maggiore frequenza di suicidi era tra la fascia 20-55 anni e tra giovani e adulti apparentemente sani. La causa principale di questi suicidi era la morte di un membro della loro famiglia.
Non si trattava quindi di senicidi o gerontocidi, ovvero della pratica di abbandonare le persone anziane o di autoisolamento da parte dell’anziano stesso, perché divenute un peso per la famiglia, che in breve conduceva alla morte, che era diffusa soprattutto tra le popolazioni nomadi ed era ancora seguita da questa etnia Inuit negli anni 1930, come riferiscono gli esploratori Knud Rasmussen e Gontran de Poncins e già cessata nel periodo dello studio di Asen Balikci.
Anche altri studi precedenti inducono a ritenere che il tasso di suicidi tra le popolazioni artiche nord americane fosse molto elevato, e come una delle cause tra i maschi adulti fosse anche l’angoscia da kayak. Angoscia dovuta - come spiegato nei miei post precedenti - alle gelide acque, al non saper nuotare e, soprattutto, al non saper eseguire il kayak-roll, e ciò da parte della maggioranza dei kayaker, costretti ad andare in kayak per la mera sopravvivenza loro e delle loro famiglie. All’opposto, oggi, li vediamo eseguire kayak roll con maestria al Greenland National Kayaking Championships, dove raddrizzano i loro kayak con la pagaia nelle posizioni più inverosimili, spiegate con le diverse situazioni di pericolo in cui si potevano trovare quando, un tempo, andavano a caccia in kayak. Ora sappiamo che purtroppo la maggioranza di loro, quando si trovava in tali situazioni, non poteva altro che annaspare e seguire la foca arpionata nel fondo del mare, con lutti in famiglia e un opprimente senso di angoscia, che invadeva molti adulti e che poteva anche condurre al suicidio.
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