Era abitudine per noi giovani andare di buon ora al Canoa Club Verona in corte Dogana e fermarci a lungo fino a sera inoltrata. Chi prima arrivava, prima sceglieva la canoa, e aveva diritto di passarci l’intera giornata a cavalcare le immense, per noi, onde di Ponte Pietra o di raffinare la tecnica tra i paletti di Ponte Navi. La canoa che andava per la maggiore era una “Treska” di Alessandrini di colore blu cosparsa di brillantini. Non andava neppure male se davanti al portone arrivavi in zona podio perché a quel punto avevi l’imbarazzo della scelta tra una “pagodina” color rosso e una 400 dalle dimensioni decisamente eccessive per pesi leggeri come eravamo noi. I problemi erano due: primo:se avevi qualche commissione da fare per conto della famiglia, ciò ritardava la corsa in sede e ti lasciava fuori dai giochi per le tre scelte d’élite; secondo: se per caso uno dei “vecchi” quella mattina aveva deciso di non presentarsi al lavoro estivo optando per un allenamento con noi “pivellini”: loro ovviamente avevano la precedenza assoluta. Così passavamo gran parte delle giornate estive prima che qualcuno di noi riuscisse a prendere la patente per poter guidare il magico volkswagen sociale rosso e bianco, che guidavi praticamente in piedi e viaggiava sempre a pieno carico umano… anche oltre! In una di queste lunghe estati sognando in riva all’Adige ho incontrato Guglielmo Granacci, mi apparse davanti quasi d’incanto mentre mi apprestavo a chiudere la porticina che dalla sede porta al fiume. Avevo forse 12 o 13 anni. Avevo riposto tutta l’attrezzatura, toccava a me ripulire lo spogliatoio e chiudere la sede, ma quella sera fu una vera fortuna perché mi imbattei in un personaggio che segnò a lungo il mio cammino canoistico e che mi regalò fama per il solo fatto di raccontare, il giorno dopo, storie incredibili di canoe che si smontano e che si infilano nelle borse… non tutti ovviamente mi credettero, anzi molti erano convinti che i rovesciamenti in Adige possono procurare allucinazioni di vario genere.
Il signor Granacci mi chiese se potevo indicargli dove si trovava la stazione dei treni e se potevo aspettare qualche minuto prima di chiudere, giusto il tempo per ripiegare la sua canoa e cambiarsi i vestiti. Ripiegare la canoa? Io rimasi sconvolto ammirando i gesti sicuri e precisi di chi sicuramente aveva chissà quante volte fatto e rifatto quella meticolosa procedura. Pochi minuti giusto il tempo per sapere che arrivava da Merano via fiume e che era partito tre giorni prima. Avrebbe voluto proseguire fino al mare, ma la scarsità d’acqua lo faceva desistere. Mi spiegò che quella canoa, tanto diversa da quelle che noi piccoli canoisti avevamo visto fino a quel momento, era un gioiellino tedesco tanto comodo per pagaiare e tanto veloce da mettere in una borsa con tracolla da confondersi come semplice bagaglio al seguito di un qualsiasi turista. Mi spiegò anche che all’occorrenza potevi issarci una vela e sfruttare la forza del vento per percorrere lunghe distanze. Prima di lasciare la nostra sede scattò qualche foto, mi disse che servivano a testimoniare il suo passaggio e arricchire il suo archivio.
Lo accompagnai alla stazione, io sulla mia bici, lui con passo veloce e attrezzatura al seguito. Camminando e pedalando mi chiese se conoscessi Pellegrini e i fratelli Bergamini, mi chiese anche se organizzassimo sempre la discesa da Verona al mare in autunno e che, se ci fosse stata, poteva essere quella l’occasione per completare la sua discesa interrotta quel giorno. Mi chiese anche se sapevo se la navigazione fino a San Giovanni Lupatoto fosse sempre facile e agevole. Tutte informazioni che si annotava scrupolosamente su un taccuino, lasciando così la mia fantasia libera di pensare a chissà quale fosse lo scopo finale di tutto ciò… svelai il mistero da li a poco.
Lo vidi sparire sul lungo viale che porta alla stazione, mi disse che aveva capito e che forse era il caso che rientrassi a casa che probabilmente i miei mi stavano aspettando. Acconsentii, vista anche l’ora e le sicure parole che mi sarei sentito al mio rientro a casa, ma euforico non pensai al peggio. In tutto questo frastuono mi dimenticai di chiedergli almeno il nome cosa che mi sarebbe stata molto utile perlomeno per cercare di mitigare le furie di mia mamma che aveva già messo in allerta tutti gli ospedali e i carabinieri della zona. Dire che ero in ritardo per la cena perché avevo accompagnato alla stazione un tipo venuto dal fiume da Merano e che arrivato al club aveva ripiegato la canoa e la pagaia cacciandola in un saccone militare, non era facile da credere tanto più che non avevo neppure un nome di riferimento o una sorta di pur minima credibilità. Il mio racconto non poteva stare in piedi, ma la soluzione arrivò telefonando proprio a Mirko Pellegrini – di lui forse un giorno scriverò un libro - che dopo i resoconti increduli di mia mamma le spiegò tutto e diede anche il nome al canoista sconosciuto: certamente si tratta del mitico Guglielmo Granacci poteva essere solo lui di questo il nostro Mirko ne era sicuro e tranquillizzò mia mamma sul fatto di non avere un figlio completamente pazzo.
Mio padre, uomo di poche parole e di tante letture, da lì a pochi giorni tornò a casa con un pacchetto ben confezionato che tanto sapeva di libro. Mi chiamò e mi consegnò l’involucro. Io per la verità al tempo non ero uno studente modello e tanto meno un appassionato di lettura, ma le parole rassicuranti di mio padre mi fecero capire che forse quella volta il libro era di tutt’altro genere. Scartai il pacchetto e mi ritrovai tra le mani: “Guida ai Fiumi d’Italia” di Guglielmo Granacci il mio primo vero libro di canoa!
Occhio all’onda! Ettore Ivaldi